Cosa disegna un bambino di tre anni quando disegna? L’opinione di certi genitori è che sia un delizioso scarabocchio che assomiglia moltissimo a una capra, allo zio Ettore o a Biancaneve, tutti espressi con la stessa forma di gomitolo tormentato dalla furia ludica del gatto di casa. Per certi altri è invece l’opera più simile a quel Dubuffet visto tanti anni fa a New York. C’è poi chi decide che sia un grosso, grasso, scarabocchio nero. Il bambino prova a dire che quella è la mamma contenta.
Cesare Brandi, storico e critico d’arte, avrebbe detto che non è un disegno, o meglio che non è un’immagine ma un segno, ha più a che fare con la scrittura che con la pittura. Quanto al fatto che, in ogni caso, lo scarabocchio non assomigli all’enunciato che lo vuole descrivere, Brandi nel 1960, nel libro Segno e Immagine, propone l’idea che “il bambino disegna o cerca di fissare quel che ha estratto da quel che vede, e, con quel che ha estratto da quel che vede, non mira ad una rassomiglianza con l’oggetto che vuole rappresentare, ma con lo schema rudimentale che se n’è formato”.
Per questo motivo Brandi considera che il disegno infantile non sia immagine ma segno, e come segno si debba collocare nella linea pittografica e non in quella rappresentativa: siamo, ribadisce, sulla linea della scrittura e non su quella della pittura. Anche Maria Montessori aveva intuito questo rapporto tra disegno infantile e scrittura, sottolineando che le scritture primitive erano disegno come, appunto, nelle pittografie.
A proposito dell’artisticità dei precoci garbugli, Brandi aggiunge che “fra la raffigurazione infantile e quella di Klee correrà la stessa differenza che passa fra l’Ah! di dolore e l’Ah! interiezione che sia passata in poesia”. È il lungo percorso che va dall’espressione reattiva (la risposta al dolore) alla comunicazione (l’Ah! interiettivo) e poi all’espressione poetica (l’atto artistico consapevole: Ah l’uomo che se ne va sicuro di Montale).
Il disegno è un alfabeto attraverso cui il bambino racconta, si regala quel che vorrebbe possedere, o anche dà sfogo a insoddisfazione e rabbia; ma è pure un gioco e come nel gioco si nomina un oggetto perché ne rappresenti un altro completamente differente – un bicchiere può essere un genitore – così uno scarabocchio può andare al galoppo, volare come una farfalla o esprimere un’emozione.
Lo scarabocchio è la descrizione di un’immagine e forse al bambino, riguardando i segni che ha tracciato sul foglio, accade quel che accade a Daisuke il protagonista del romanzo E poi dello scrittore giapponese Sōseki Natsume: “Dopo qualche minuto cominciò a provare l’impressione che i colori non fossero dipinti sul muro, ma uscissero dalle sue pupille per lanciarsi contro la parete, dove si coagulavano. Regolando meglio il flusso che veniva fuori dai suoi occhi, avrebbe potuto correggere a piacere le forme umane e vegetali dipinte.”
D’altra parte la qualità estetica che succede di attribuire all’audacia cromatica o alla libertà formale di qualche disegno infantile è il riflesso delle trasformazioni che l’arte moderna ha operato sulla spazialità dell’immagine o sul realismo delle forme.
È un gioco di specchi: l’arte moderna ha guardato all’infanzia come alla sorgente di uno sguardo più limpido e incontaminato sul reale. Già nel 1857 John Ruskin incoraggiava gli artisti a ritrovare ‘l’innocenza dello sguardo’. Baudelaire scriveva nel 1863 che un bambino guarda ogni cosa come la vedesse per la prima volta. Ma per un bambino di tre anni ogni giorno è pieno di prime volte. Nel 1904 Cézanne diceva a Émile Bernard: “Vorrei essere un bambino”. Un paradosso, perché l’artista avrebbe avuto voglia di essere il Cézannne del 1904, dentro lo sguardo di un bambino. Non si può avere lo sguardo puro e avere la consapevolezza e il talento di sfruttarlo artisticamente.
Le avanguardie che si formano all’inizio del ventesimo secolo coniugano questa inclinazione a vedere nel bambino una specie di pura macchina della visione sorgiva con la considerazione della cultura primitiva come prodotto di una sorta d’infanzia dell’umanità. Kandinsky, Klee, Matisse, Picasso, Mirò e Dubuffet collezionano disegni infantili.
Klee nel 1902, rovistando in un vecchio deposito, ritrova disegni fatti da lui dai tre ai dieci anni e afferma perentorio che sono le cose più significative che abbia realizzato sino a quel momento e nel 1919 crea delle piccole figure in gesso (Il poeta laureato, Il fantasma di uno spaventapasseri) in cui il suo tratto infantile si ambienta perfettamente, come fosse tornato nel suo mondo d’origine. L’essenzialità del segno infantile, le sue distorsioni, le rappresentazioni paradossali sono considerate come una forma di comunicazione più diretta dell’interiorità e poi dell’inconscio non ancora domato e represso.
Quando Alice disegna, lo specchio non lo attraversa, ma ci sbatte contro.
Non possiamo sapere cosa disegna un bambino quando disegna. Disegna quello che vede, ma quello che vede, noi adulti non lo possiamo più vedere. Dobbiamo tradurlo senza avere una stele di Rosetta per farlo. Uno scarabocchio è uno scarabocchio è uno scarabocchio.
Grazie molto interessante
Grazie a te Roberto. Come stai? Non avevo visto il commento.
Alessandra
Grazie, mi si è aperto un mondo!!!
geniale! semplicemente! detto da uno che vorrebbe magari fare un disegno “rappresentativo” ma non riesce che a fare brutti “scarabocchi” non creativi come
quelli dei bambini o di Klee … la razionalità ha ucciso il sogno …