Come mai era accaduto, il secolo scorso, oltreché breve, è stato un secolo impegnato nel dare forma al mondo e nell’impararlo attraverso lo sguardo. Otto Neurath, filosofo, economista, sociologo con studi di matematica, fisica e storia, nato nel 1882 a Vienna, chiamava il Novecento l’ “Era dell’Occhio”. Era convinzione di Neurath che i suoi contemporanei fossero decisamente condizionati dal cinema e dall’abbondanza di immagini in cui vivevano immersi: gran parte della conoscenza veniva attinta durante le ore di svago, nel più piacevole dei modi, attraverso la vista. Chi avesse voluto ampliare ed elevare l’istruzione delle masse avrebbe dovuto impiegare i mezzi della moderna pubblicità. Ma non la sua sintassi: Neurath infatti postulava un uso delle immagini antitetico a quello messo in atto dalla pubblicità. Consapevole della forza travolgente delle nuove forme di rappresentazione del reale, voleva governarle in senso educativo. Il suo punto di partenza fu l’invenzione della Bildstatistik, ovvero la statistica visiva, che immaginava dovesse essere uno dei pilastri della formazione delle classi popolari. Alla Bildstatistik attribuiva il compito di rendere chiaro e accessibile un fatto, attraverso l’impiego di pittogrammi. Contro la causalità del paradigma scientifico, la statistica e la sua inedita visualizzazione avrebbero usato le stesse armi dell’economia capitalista (numeri, diagrammi, previsioni, strategie) ma ribaltandone analisi e finalità. In questo caso non il cinema, ma la statistica diventava l’arma più forte, non propaganda o manipolazione, ma comprensione dei fatti. Là dove l’immagine pubblicitaria esige il dominio assoluto, la Bildstatistik pone l’una accanto all’altra diverse immagini statistiche senza che si disturbino, anzi facendo in modo che la loro giustapposizione produca maggiore informazione.
Il passo successivo nella ricerca di Neurath per la costruzione di un linguaggio visivo capace di illustrare e spiegare il funzionamento del reale fu la definizione di una pedagogia visiva (Bildpädagogik) destinata ad evolversi in una visual education che potesse arricchire la sua efficacia comunicativa facendo coesistere in un nuovo idioletto internazionale, grafica, illustrazioni, icone, testi, fotografie, diagrammi, disegni.
La pedagogia, che si serve a buon diritto di ogni altro sapere per mettere a punto principî, metodi e sistemi su cui modellare la concreta prassi educativa, non poteva certo ignorare la prepotenza con cui l’immagine toglieva spazio alla parola come veicolo di conoscenza.
E la Mecca della pedagogia all’alba del Novecento era, secondo i contemporanei, proprio Vienna. Neurath non era un pedagogista in senso stretto (d’altra parte se il senso è stretto, difficile si possa parlare di pedagogia) ma aveva fuor di dubbio una robusta vocazione educativa. Nel 1916 al Ministero della difesa di Vienna, dove era responsabile della sezione economica, e al Museo di Economia di Guerra di Lipsia, in qualità di direttore, diede concreta prova di quella vocazione impiegando gli strumenti della comunicazione visiva per rendere comprensibili le ricerche di cui si occupava, -l’economia bellica – rendendone espliciti i nessi e le dinamiche di trasformazione. Socialista, esponente di sinistra della socialdemocrazia, Neurath ebbe un ruolo di responsabilità nella Repubblica dei Consigli bavarese, esperimento fallito di governo rivoluzionario modellato sulla repubblica dei soviet, e nei primi anni Venti fu membro attivo, insieme ad altri importanti scienziati e filosofi, del Circolo di Vienna di cui condivideva l’approccio positivista, antimetafisico e illuminista.
C’era a Vienna una solida tradizione di istituzioni e progetti educativi, indirizzati ad aiutare ed elevare culturalmente i lavoratori dei ceti popolari che non avevano potuto accedere all’istruzione, ma era una tradizione che fondava le sue strategie sul potere assoluto della parola scritta. Era la cultura alta, fondata sul libro, a dettare legge. L’illusione era quella di poter in-formare, cioè calare in una forma superiore di cultura, coloro che altrimenti si sarebbero dissipati in divertimenti futili e alienanti: fede incrollabile degli austro-marxisti nel potere salvifico del ‘leggere scrivere e far di conto’. Ai lavoratori veniva chiesto di attingere il sapere secondo la prassi abituale attraverso cui si istruivano le classi privilegiate (la lettura, le conferenze ecc. ecc.).
Neurath invece, riflettendo sulle trasformazioni sociali in atto, che comprendevano l’inedito accesso di larghe masse alla produzione e alla gestione della cosa pubblica, individuò la necessità di luoghi dove i fenomeni socio-economici potessero essere meglio compresi attraverso l’illustrazione [la rappresentazione per immagini] degli strumenti concettuali e dei processi che a quei fenomeni sono sottesi.
Uno di questi luoghi venne inaugurato da Neurath all’inizio del 1925: il Museo Sociale ed Economico di Vienna, Gesellschafts-und Wirtschaftsmuseum, dove principi, metodi e tecniche espressive della pedagogia visiva e della statistica visuale (Bildpädagogik e Bildstatistik) furono approfonditi e sistematizzati. Al centro della concezione che governa queste due discipline ci sono i Sachbilder, immagini cosali, “che rappresentano stati di cose comprensibili a tutti”.
La Bildpädagogik, che nell’albero genealogico annovera la pittura didattica medioevale, Leonardo e le tavole dell’enciclopedia illuminista, poteva per parte sua riappropriarsi in via diretta di una storia risalente almeno all’Orbis Pictus (1658) di Comenio, primo libro illustrato per l’infanzia, dove le immagini entravano risolutamente nel processo educativo.
“Ciò che si può mostrare con un’immagine non deve dirsi con parole” è la mirabile sentenza, quasi un aforisma, con cui Neurath riassume la sua poetica pedagogica. Se altrove non sembra eccellere in umorismo, qui il sociologo viennese piuttosto che chiosare la settima e ultima proposizione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein – “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” – la aggira, postulando che oltre il linguaggio deputato alla descrizione dei fatti, vi sia non l’ineffabile ma un modo ulteriore di rappresentarli. Non è un invito a tacere ma a parlare con le immagini.
Essenzializzare, rendere espliciti i nessi, schematizzare: queste sono le azioni da compiere. “Il miglior docente è chi sa meglio che cosa tralasciare”, affermava Neurath. Per rimanere nell’ambito del design si può dire che Neurath abbia elaborato in grande anticipo la filosofia del less is more. Ogni elemento visivo diventa iconico, significante, perché rimanda a un dato, a una funzione, a una relazione. L’uso dei pittogrammi, invece di curve e diagrammi, aumenta l’efficacia comunicativa e non importa che questo avvenga a scapito della chiarezza matematica. Ancora Neurath: “meglio tenere a mente immagini quantitative semplificate piuttosto che dimenticare numeri esatti”.
Il lavoro pedagogico abdica all’esattezza matematica in favore di una divulgazione media che però rende evidenti quegli stessi risultati che la matematica lascerebbe oscuri ai più.
Nel 1925 al Gesellschafts-und Wirtschaftsmuseum si consolidò la collaborazione tra Otto Neurath e Marie Reidemeister, che era diventata sua assistente nel 1924. È lei nel 1935, durante il loro comune esilio, a coniare l’acronimo Isotype (International System of Typographic Picture Education) per quello che sino ad allora era stato chiamato “Metodo viennese”, un sistema di visualizzazione e semplificazione delle informazioni che in quel museo e per quel museo era stato ideato.
È una nuova scrittura geroglifica che, in ambito pedagogico, vorrebbe colmare la frattura tra le immagini infantili e le immagini didattiche. Nel 1974 Marie Reidemeister, divenuta nel 1941 Marie Neurath, ricorderà come, in un certo senso, lei e il marito avessero imparato il linguaggio Isotype dagli antichi egizi e lui scelse per la sua autobiografia, scritta tra il 1943 e il 1945 ma pubblicata per la prima volta solo nel 2010, il titolo From Hieroglyphics to Isotipe. A Visual Autobiography.
Privilegiando immagini logicamente più semplici da dominare rispetto a quelle fantastiche o naturalistiche troppo ricche di dettagli, Isotype voleva offrire all’osservatore enunciati definiti, di significato quasi obbligato. Nel creare contro-ambienti visivi di apprendimento Neurath pensava a pannelli con immagini fisse bidimensionali che favoriscano connessioni e paragoni, stimolando riflessioni e argomentazioni. Va notato in margine come si tratti di forme antitetiche al fluire caleidoscopico del cinema.
Il cinema fa leva secondo Neurath su una sorta di affatturazione che deprime le capacità riflessivo-argomentative. Invece “il materiale visivo dovrebbe essere comparativo non solo a fini d’istruzione ma anche per abituare lo studente a fare lui stesso paragoni. L’apprendimento con immagini è appercezione di dettagli selezionati”. Eisenstein sarebbe stato assolutamente d’accordo.
Nel 1934 dopo la guerra civile di febbraio che vide i socialdemocratici soccombere alle forze del cancelliere Dolfuss, Otto Neurath e Marie Reidemeister, che avevano già portato la loro esperienza nella Russia sovietica, lasciarono Vienna per L’Aia, dove rimasero fino al 1940, raggiunti presto anche da Gerd Arnz pittore modernista, designer e grafico, membro essenziale del gruppo di lavoro Isotype.
Nel 1936 riassumendo i tratti distintivi, e necessari, perché un’immagine sia pertinente al sistema di rappresentazione visiva Isotype Neurath ebbe a chiarire: “Un’immagine che faccia buon uso del sistema deve dar conto di tutti i fatti oggetto della rappresentazione. Al primo sguardo devono essere evidenti gli elementi più importanti, al secondo i meno importanti, al terzo i dettagli, al quarto niente più di questo – se vedete di più, l’immagine educativa (teaching-picture) è sbagliata”.
Sua moglie Marie Neurath, a metà degli anni Quaranta avrebbe sintetizzato in modo leggermente diverso i precetti per il buon uso della filosofia Isotype. Invitata a spiegare quale fosse il modo migliore per approcciare i libri che andava realizzando, precisò: “The more you look, the more you will see” (“più a lungo guardi, più cose vedrai”). L’accento è decisamente spostato verso una lettura più collaborativa e aperta.
E nel 1950 nella prefazione di First Book, primo volume della serie Visual Science, ribadiva: “Non ci sono regole speciali sul modo in cui dovreste leggere queste immagini, ma scoprirete come sia importante innanzitutto capire cosa ogni simbolo [icona] rappresenti. Allora tornate a guardare l’immagine nel suo insieme e cercate di vedere in che modo le differenti parti sono in relazione tra loro [i nessi]… Troverete la risposta alla maggior parte delle vostre domande semplicemente guardando con attenzione le immagini”.
Nel 1940 Otto e Marie lasciarono i Paesi Bassi invasi dai nazisti e si rifugiarono in Inghilterra dove per quasi dieci mesi furono internati in un campo di custodia per Enemy Aliens (stranieri nemici). L’anno successivo si sposano e nel 1942 si stabiliscono a Oxford dove fondano l’Isotype Institute.
L’ Istituto venne coinvolto in importanti progetti governativi volti a spiegare l’impegno inglese nella guerra, a supportare attraverso soluzioni visuali una propaganda discreta, a chiarire attraverso le immagini i cambiamenti in atto nella politica sociale, nella pianificazione economica, nella politica di sostegno sociale e nella politica occupazionale.
L’idea di produrre libri per bambini nacque nel 1944 da una collaborazione tra Adprint, società di confezionamento editoriale, e Isotype Institute.
Otto Neurath aveva parecchie idee su come i libri per bambini potessero beneficiare del suo metodo e sui modi in cui l’educazione visiva avrebbe migliorato l’apprendimento e l’insegnamento nelle scuole. Pensava a collane specifiche che fossero una guida per gli insegnanti che volessero realizzare materiali didattici con illustrazioni, fotografie, fumetti, grafiche, ma immaginava anche tavole complete inserite in una rivista dell’editore che potessero essere staccate e portate in classe dagli insegnanti. Innanzitutto progettò libri illustrati che raccontassero la geografia, la chimica, la storia, l’astronomia, la nascita della carta o la caccia alla balena. Era convinto che i bambini fossero in grado di comprendere i fenomeni più complessi e attribuiva a quei libri la virtù di rendere i piccoli lettori consapevoli delle loro capacità.
Neurath pensò anche a una serie di volumi che avessero come protagonisti due personaggi, Iso e Typie, che vivessero le proprie avventure nel mondo Isotype, e ad altri, Just Boxes (solo scatole), dove svelare il segreto funzionamento di oggetti quotidiani all’apparenza simili a semplici scatole. L’idea era di suscitare l’interesse dei piccoli lettori mostrando il mondo da un punto di vista del tutto inusuale, di spingerli a guardare, confrontare e trarre in modo autonomo conclusioni risolutive.
Non si trattava tanto di trasferire conoscenza in modo semplificato, quanto di preordinare una risposta alle possibili domande dei bambini, soddisfare il loro amore per l’azione, favorire la loro identificazione con un personaggio. E soprattutto, come ebbe a scrivere Marie Neurath, indurre i lettori a trovare da sé la soluzione agli enigmi, convincerli che per avere risposta a una domanda bastasse guardare meglio e più a lungo. È ancora lei a ricordare come riflettesse su quali fossero le cose essenziali da mostrare, come usare le comparazioni, come indirizzare l’attenzione attraverso la scelta e la disposizione dei colori, come portare in primo piano i dettagli più importanti e defilare quelli accessori, avendo ben presente come ogni dettaglio dovesse essere significativo, come tutto ciò che veniva rappresentato dovesse contribuire alla completezza dell’informazione.
Quando Otto Neurath morì, nel 1945, Marie assunse la direzione dell’Isotype Institute e il suo impegno principale negli anni del dopoguerra fino all’inizio degli anni Settanta fu proprio di realizzare libri per l’infanzia, pubblicati tutti a Londra da Max Parrish, che dirigeva il nuovo dipartimento editoriale dell’Adprint.
Marie Neurath nel gruppo di lavoro Isotype aveva il ruolo di transformer: sua era la responsabilità di comprendere a fondo i dati da elaborare, ottenere tutte le informazioni necessarie dagli esperti, decidere cosa comunicare al pubblico, rendendo i contenuti accessibili e chiari, collegati al tema generale e a conoscenze già esposte altrove. Suo era il compito di eliminare il superfluo, inserire i cambiamenti, ma anche creare una prima bozza delle tavole in cui ogni dettaglio fosse definito: il titolo, lo sviluppo, i caratteri tipografici, i numeri, le evidenze. Il transformer definiva il modello su cui avrebbero lavorato disegnatori e grafici per il risultato definitivo .
Marie Neurath però non si limitava a costruire concettualmente ogni tavola traducendo in immagini la complessa polifonia dei dati, ma in molti casi scriveva i testi-didascalia e realizzava quelle stesse immagini, le combinava, le gerarchizzava, decideva i colori -importante marca dei significati -, realizzava prove di stampa. Marie era riuscita così a mettere a pieno frutto gli studi di matematica e fisica compiuti a Göttingen e i corsi seguiti nel 1919 alla Scuola d’Arte della stessa città.
I primi libri realizzati da Marie Neurath con Max Parrish furono If you could see inside (Se tu potessi guardare dentro, 1948), I’ll show how it happens (Ti mostrerò come succede, 1948), Railways under London (Ferrovia sotto Londra, 1948) e le due serie di volumetti intitolati Visual History of Mankind (Storia visiva dell’umanità, 1948) e Visual Science (Scienza per immagini, 1950-2).
If you could see inside riprende Just Boxes, ma abbandona l’idea di una forma esteriore sempre uguale che occulta un interno sorprendente, per condurre alla scoperta di ciò che di meraviglioso accade dentro un uovo, nella casa sotterranea di una talpa, in un nido di vespe, o insegnando come scavare un tunnel per fuggire da un castello assediato.
Allo stesso modo in I’ll show how it happens si mescolano le storie più diverse, dalla nascita di una libellula alla spiegazione di come il fuoco possa far volare una mongolfiera: quello che è comune a questi libri, il tratto Isotype, sta nell’omissione di qualsiasi dettaglio superfluo, nella semplicità delle forme, nell’uso di pittogrammi originali e appropriati.
In Visual History of Mankind l’influenza dei princìpi del “Metodo viennese” è più accentuata e messa alla prova dalla complessità delle relazioni tra i fatti e la resa narrativa, dalla visualizzazione di distanze, cronologia, dati quantitativi, dall’espressione di un lungo processo evolutivo quasi esclusivamente attraverso le immagini. Quello che teniamo tra le mani è anche uno strumento di lavoro per insegnanti, che offre un equilibrato insieme di problemi, risposte, frammenti di argomentazione che invitano a essere completati, a pensare, ragionare, ipotizzare, verificare.
Come è scritto in una delle prefazioni che sempre accompagnavano i volumi della serie Visual Science: “Queste immagini non sono pensate per mostrarvi esattamente come le cose appaiono ma per darvi informazioni su di esse, come si trattasse di una mappa o dello schema di un ingegnere. (…) Tutto ciò che non fosse d’aiuto a comprendere o che potesse ingenerare confusione sul significato di ciò che è rappresentato, è stato omesso.”
Anche i colori non sono frutto di una predilezione decorativa ma di una strategia cognitiva.
Il libri di Marie Neurath ebbero un ottimo successo, soprattutto Railways under London, e Max Parrish prese a insistere per averne altri, molti altri. Così nacquero le serie Wonders of The Modern World (Le meraviglie del mondo moderno), un’enciclopedia a puntate per giovanissimi appassionati di progresso scientifico, il cui motto era “come e perché”, e Wonder World of Nature (Il meraviglioso mondo della natura), ovvero la spiegazione alle strane cose che succedono in natura. Le illustrazioni erano semplici all’apparenza, ma non suscitavano mai il sentimento di un’approssimazione o il dubbio di una mancanza: riempiono ancora oggi lo sguardo, suggeriscono e non si limitano a istruire ma invitano a fantasticare.
Marie Neurath aveva saggiamente moderato l’indifferenza dell’ultra-positivista Otto per l’estetica, la sua preoccupazione di una bellezza superflua. Anche se l’austera eleganza e la finezza grafica delle tavole della Bildpädagogik le rendono eccezionalmente gradevoli e armoniose.
Ma adesso anche il gioco, con la sua coreografie di aspettative, regole e invenzioni, sembrava affacciarsi sulla scena. Un solo esempio, tratto dalla pagina intitolata L’uscita dal sommergibile affondato nel volume Esplorando il fondo marino (Exploring Under the Sea): la sequenza delle operazioni di salvataggio è chiara, esplicativa, rassicurante, gli uomini agiscono con calma, precisione, concentrazione. Non ci sono dettagli superflui, eppure… Eppure proprio in questa numinosa imperturbabilità circola un’aria d’avventura, di fantascienza, ed è facile sovrapporre alle figurette isotopiche quelle degli impeccabili marinai del capitano Nemo, automatici esecutori di ordini impossibili eseguiti senza emozioni, nel film di Richard Fleischer tratto dal romanzo di Verne e prodotto dalla Disney (20000 Leagues Under the Sea, 1954).
E in un altro punto dello stesso libro, – la pagina dei sommozzatori, – il testo didascalico e neutro accompagna un’immagine che non ne è affatto l’illustrazione ma che sintetizza invece una scena appassionante di ricerca e scoperta nella calma provvisoria del fondo marino, con un uomo incongruamente al telefono in una sorta di cabina londinese e le ‘ossa’ di un galeone in precaria emersione dalla sabbia.
La compassata e industriosa competenza dei subacquei ha il distacco un poco snob che si ritrova nel personaggio protagonista del film di Wes Anderson, Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e la precisione miniaturizzata dei dettagli è quella che il regista ha cercato nella scenografia posticcia della nave Belafonte, dove anche il superfluo è essenziale.
Ma anche i testi a volte colgono la loro vendetta sull’obbligo di essere solo necessari e mai suggestivi, anche se la bonaria sapienza paratattica con cui ci istruiscono non è mai noiosa. Nel Meraviglioso mondo della terra e del cielo (The Wonder World of Earth and Sky) descrivendo la potenza del ciclone, sfugge alla penna di Marie una riga che sarebbe piaciuta a Frank Baum, “una volta un campanile fu traportato per molti chilometri”. Dove? Come? Quando?
È facile incontrare in questi libretti pagine dove testo e immagini suonano in perfetta consonanza, rispondendo con la stessa felice parsimonia alla curiosità dei fatti e alle sollecitazioni dell’immaginazione.
Ancora qualche altra pagina tratto dalla serie Visual Science nell’edizione italiana dei Fratelli Fabbri.
Viaggiando dai geroglifici alla isotopya – quella forma di utopia grafica che avrebbe voluto un mondo senza angoli bui e in piena luce per tutti – capita ancora però, come abbiamo già visto che la razionalizzazione delle forme, per una miracolosa eterogenesi dei fini, smarrisca fortunatamente la strada e si perda in divagazioni poetiche.
Così le molle nel meccanismo di una sveglia si trasformano in fiori e il bollitore in uno sbuffante pachiderma in fuga dalle vampe del calore.
Una nuova serie, They Lived Like This (Loro vivono così) esce tra il 1964 e il 1971: il progetto era stato sviluppato per Common Ground editore di pellicole didattiche e affrontava il tema della vita quotidiana nell’antichità, a Roma, in Mesopotamia, in Egitto, in Perù, Africa, Cina, Persia, India, Creta, ecc. Era l’occasione per mettere alla prova una forma d’espressione nuova: “disegni e fotografie si prestano bene allo stesso modo per essere impiegati nel cinema e siamo stati capaci di mescolare tavole cronologiche, diagrammi e mappe con fotografie di paesaggi, persone e opere d’arte.” Più difficile fu la trasposizione di questa stessa complessa tessitura nella versione a stampa del progetto, venti libri, a causa dei problemi tipografici causati dall’assemblaggio di materiali diversi.
Marie Neurath si ritirò dagli impegni professionali nel 1971 e donò l’archivio di lavoro dell’Isotype Institute all’Università di Reading, dove è tutt’ora conservato nel Department of Typography & Graphic Communication, così come la collezione privata di Otto e Marie Neurath. Sino al 10 ottobre 1986, quando è morta, Marie si è dedicata alla raccolta di materiali biografici del marito e al riordino, l’edizione e la traduzione dei suoi scritti.
Grazie al Suo articolo ho scoperto una profonda sintonia d’intenti e di pensiero con queste due figure importantissime e a me finora sconosciute. In loro ho trovato le parole che possono spiegare e definire il mio lavoro. Da un paio d’anni faccio libri per bambini in stoffa e costruisco le pagine con l’intento dei loro pittogrammi! Ho studiato Munari e Montessori e sono felice di aver conosciuto oggi Otto e Marie Neurath!
Marina Simeoni
Gentile Marina, la ringraziamo molto per aver condiviso l’emozione della scoperta. Questo blog vorrebbe proprio dare ispirazioni nuove scavando bene nelle cose più e meno conosciute.
Alessandra
Vi comunichiamo che è stato pubblicato in rivistaeco.it un articolo sull’ISOTYPE di Neurath riguardante la traduzione italiana di Neurath, “International Picture Language”, “Linguaggio internazionale per immagini”, Milano, Mimesis, 2018 (collana “Minima Volti”).Siamo lieti che proprio nel 2018 si riscopra con iniziative coincidenti e indipendenti questo pensatore così originale. L’idea di pubblicare la traduzione di questo volume è sorta a seguito di un Master di primo livello sull’autismo presso l’Università di Torino. Da tempo (2010) lavoriamo su Neurath del quale abbiamo promosso la traduzione di International Planning for Freedom, presentata al Circolo dei Lettori di Torino (scaricabile gratuitamente da “rivistaeco.it “) che, assieme ad altri scritti di Neurath, è stata ripubblicata con il titolo complessivo “L’utopia realmente possibile”, sempre per Mimesis (2016, sempre nella collana “Minima Volti”).
Cordiali saluti
Tiziana C. Carena (curatrice dell’introduzione al volume sull’ISOTYPE
Francesco Ingravalle (traduttore del volume sull’ISOTYPE)
Salve Tiziana, non mi ero accorta di questo commento e la ringrazio davvero tanto! Recupero il libro molto molto volentieri!
Alessandra Falconi (Zaffiria)