Takei Takeo è un artista giapponese nato nel 1894 a Suwa, sulla riva sud dell’omonimo lago (altre fonti indicano Hirano oggi Okaya, sulla sponda opposta, villaggio di cui il padre di Takei sarebbe stato sindaco) tra le montagne della prefettura di Nagano, in una famiglia del clan Suwa, funzionari dello shogunato. È un bambino malaticcio, quasi mai in grado di frequentare la scuola, spesso solo, incline alla fantasticheria. Gravato a lungo da obbligata immobilità inventa un mondo dove si muove sotto le sembianze di ‘Mito’, una creatura magica, leggera.
Nel 1913 è a Tokio dove si iscrive prima allo Hongo Yoga Kenkyujo e poi, dal 1919, alla Scuola d’Arte di Ueno. In entrambi i casi il suo interesse è per lo studio della storia e degli stili dell’arte occidentale. Si dedica in questo periodo all’apprendimento della pittura a olio mettendo a frutto un precocissimo talento creativo, coltivato a dispetto della prevedibile opposizione del padre.
Una volta laureato, nel 1920, si sposa e per mantenere la famiglia inizia a collaborare in veste di illustratore con la rivista Kodomo no tomo (L’amico dei bambini). Nasce da questo impegno il successivo coinvolgimento nella creazione di un’altra rivista, Kodomo no kuni (Il paese dei bambini), laboratorio permanente per scrittori e artisti interessati alla letteratura e all’illustrazione per l’infanzia, che viene pubblicata dal 1922 al 1944. Takei vi si impone subito come uno tra gli autori più assidui e significativi.
Le copertine della rivista da lui disegnate nel corso degli anni esprimono un meravigliante eclettismo tecnico e i debiti contratti con le avanguardie europee. Ma quello che le trasforma da immagini in racconti dotati di una imprevista profondità di campo è altro: cartoline da paesi lontani, esotici e accoglienti, il diario di bordo di un viaggiatore incantato che incontra molti curiosi personaggi prigionieri di un gentile ma insuperabile mondo dei balocchi. Però le illustrazioni di Kodomo no kuni sono anche malinconiche. Takei non vuole barare: la fantasia non è la realtà. Giunta la sera il bambino ripone i suoi giochi nel baule, in un crepuscolo ovattato da cui li può far fuggire solo l’immaginazione. Un po’ Alice e un po’ Little Nemo, Takei ha un passaporto speciale per i sogni e per i mondi dove il ‘segno’ può animare qualsiasi oggetto. Lo stile di Takei, accurato ma incline alla bizzarria, decorativo ma surreale, infonde una calma e nostalgica felicità. Nonostante l’esclamativa originalità le copertine di Kodomo no kuni evocano in un gomitolo colorato filato da mille direzioni diverse, Winsor McCay, i libri per bambini della Russia post-rivoluzionaria, l’iconografia infantile del primo novecento, Leon Bakst e spesso sembrano ricordare qualcosa che nel 1926 o nel 1929 era ancora di là da venire.
L’immediato e profondo coinvolgimento di Takei nelle sorti della letteratura per bambini corrisponde sin dall’inizio all’esperienza liberale e cosmopolita – parte di un più ampio slancio modernizzatore che si sviluppò a inizio secolo in Giappone – volta non solo a riformare il sistema educativo ma bensì a sviluppare nuove riflessioni sull’infanzia e ad arricchire la sua comprensione da parte dell’intera società.
Nel 1923 pubblica il suo primo libro Otogi no tamago [L’uovo fatato] e nel 1925 allestisce la sua prima mostra personale a Tokio, alla galleria Shiseido nel quartiere di Ginza. È in questa occasione che marca il suo impegno per la creazione di una nuova letteratura per l’infanzia ideando un termine, dō-ga, che sta a indicare le immagini per bambini, e che si potrebbe anche tradurre con l’espressione ‘immagine del candore’. Il termine è caduto in disuso dagli anni ’70, ma la sua influenza sembra riflettersi ancora nella passione della cultura popolare giapponese per gli oggetti piccoli e infantili.
Nel 1927 fonda insieme ad altri la Nihon doga kai (Società giapponese dell’illustrazione per bambini) che si scioglierà solo alla sua morte, nel 1983, e che è parte essenziale della volontà di Takei di elevare la qualità artistica delle illustrazioni nella letteratura per l’infanzia. Alla morte del fondatore Okamoto Kiichi, nel 1931 Takei assume le funzioni di direttore editoriale della rivista Kodomo no kuni. Da questo momento sarà lui a selezionare i lavori destinati alla pubblicazione.
Nel frattempo l’ottimo consenso ottenuto, nel 1926, dal libro Ramu-ramu O (Il re Ram-ram), lo ha fatto conoscere in tutto il paese. Se il suo maggior successo editoriale è stato Orco rosso, Orco verde, nato sulle pagine dei giornali come seriale racconto delle avventure di un orco deciso a vivere nella nostra società, Ramu-ramu O è il libro più importante per la comprensione della sua poetica. O almeno questo è quanto sostiene in un articolo del 1935 Onchi Koshiro (1891-1955), a sua volta notevole artista, convinto che un’analisi non superficiale del Re Ram-ram consenta lo svelamento dell’immaginario meglio protetto e più illuminante dell’autore. Il protagonista del racconto è un ragazzo capace di cambiare forma e con un nome così lungo da volerlo ridurre quasi al verso di un animale favoloso, ram-ram.
Ram-ram va per il mondo in cerca di un amo magico capace di spiegare le sue continue trasformazioni: dopo molte avventure lo trova, si muta in re e incontra anche la sua regina, Ginevra. Infine scompare per rinascere un’ultima volta. La data della sua morte-rinascita e il piccolo lago tra le montagne del Giappone nella cui prossimità tutto ciò accade, sono giorno e luogo di nascita di Takei stesso.
Dall’anno di pubblicazione del Re Ram-ram, Takei firmerà le sue opere con la sigla RRR (Roi Ramu-ramu), suggerendo un’affinità metaforica tra il viaggio di ricerca dell’amo magico e il suo personale itinerario nell’esplorazione di un nuovo mondo di immagini e colori nella letteratura per bambini. Come il re Ram-ram, che risveglia il suo popolo alla bellezza della natura, al suo incantamento, così Takei sembra voler ricordare ai bambini la luminosità della loro fantasia e negli adulti risvegliare il candore creativo dell’infanzia, cercando di toccare con trasparente dolcezza il cuore di entrambi.
Di seguito alcune immagini tratte da Ramu-ramu-O.
Nel 1927 i burattini sono i protagonisti di un nuovo libro, Scatola dei giocattoli. Sono attori di teatro, senza alcun Mangiafuoco capace d’intimorirli, pronti a invadere baldanzosamente la scena con la parte mandata a memoria. La spigolosità che aiuta a tipizzarne immediatamente il carattere ricorda un po’ le marionette di Fortunato Depero o una commedia dell’arte piccolo borghese da buon vicinato, con gli attori, gli artisti, le preziose, i dottori, i postini, il miles gloriosus e le fanciulle per bene.
Ma la versatilità di Takei è straordinaria: qualche anno dopo, nel 1936, illustra un pamphlet per una collana intitolata Tourist Library. Il volumetto s’intitola Children’s Days in Japan e le articolazioni puntute delle marionette si sfarinano nella dolcezza di figurette che sembrano stampate da vecchi timbri di umore morbido.
Onchi osserva che a volte l’energia inventiva di Takei sembra velata di tristezza e non esita a mettere in relazione questo fatto con la morte del primo figlio del disegnatore, avvenuta nel 1921. Ma a questa tristezza attribuisce in parte la capacità di generare l’aura magica in cui sono immersi i suoi lavori. Tra il 1938 e nel 1939 Takei in dieci mesi perde altri due figli. Dal 1939 non sigla più RRR le sue illustrazioni. I bombardamenti su Tokio durante il conflitto mondiale gli distruggeranno la casa, lo studio e moltissime tra le sue opere, ma lui non cesserà di lavorare continuando a realizzare, come fa senza interruzioni dal 1935, i suoi “kanpon” dove l’eclettismo dispiegato nelle illustrazioni diventa virtuosismo tecnico.
I “kanpon” infatti sono una serie di 139 piccoli libri d’artista pubblicati privatamente tra il 1935 e il 1983 ed esplorano con furore enciclopedico ogni possibile combinazione creativa tra strumenti per la creazione d’immagini, materiali, stili e modalità di stampa o riproduzione
“Kanpon” significa letteralmente libro pubblicato. È una ricerca personale ed eccentrica sulle potenzialità del medium-libro, una riflessione in atto, una fantasmagoria multisensoriale. Sono volumi di eccezionale qualità compositiva e artigianale. Takei stesso ne parlava come di una possessione. Ha scritto: “L’hanga (la stampa) è più che un hobby per me: alle mie stampe ho dedicato troppo tempo e fatica per pensarle come un passatempo”.
I primi quattro volumi furono stampati con la macchina tipografica partendo da matrici di zinco, ma a partire dal quinto libro Takei iniziò a “fare” i libri uno per uno. I soggetti hanno spaziato dalle bambole kokeshi alle carte da gioco, dai mendicanti del Giappone alla vita di Sant’Agnese, dalle favole popolari alla vita quotidiana di una coppia qualsiasi. Il metodo con cui li ha prodotti ha la stessa varietà, essendo ogni volume successivo al quarto realizzato con l’impiego di tecniche diverse ogni volta.
Nei “kanpon” di Takei, come in un catalogo d’invenzioni senza ripetizione e senza apparente limite, si susseguono xilografia, acquaforte, stampe da matrici in legno, litografia, graffiatura con aghi, stampe da matrici di argilla a bassorilievo, effetti di gommatura e sfregamento, di punzonatura e stozzo, in un elenco che qui è solo esemplificativo. Ecco ad esempio, un procedimento che “nessuno conosce”, come ce lo descrive Oliver Statler nel suo Modern Japanese Prints: an Art Reborn (traduzione di chi scrive):
“[Takei] compone un blocco di fogli di carta di varia superficie e spessore, a volte aggiungendo altri materiali come stoffa, pizzo, carta vetrata o foglie di bambù (per la sua superficie scanalata). Adagia su questo blocco un foglio di carta sottile e morbida, su cui stamperà. Sulla parte superiore di questo foglio stende una carta carbone (buona solo per un uso), poi un foglio di giornale. Stampa con un baren [è un disco piatto di corda intrecciata, con una maniglia. Viene strofinato sul foglio posto sulla matrice, di solito in legno, precedentemente inchiostrata] appositamente preparato, inserendo sottili fogli di gomma sotto il disco in modo da poter variare la pressione per ottenere sfumature molto delicate”.
Nell’ultima pagina di ogni volume Takei ha descritto minuziosamente e meticolosamente le tecniche utilizzate: callotipia, incisione su rame, stampa su argilla, con tamponi, mosaici in paglia, lacche, punta secca, stampa su polistirene, applicazioni di madreperla, composizioni in vetro su intelaiature metalliche, patchwork di tessuti pressati.
Quando cominciò a interessarsi alla stampa Takei abbandonò del tutto la pittura ad olio. Fu il suo modo di uscire dal quadro, in casuale e apparente consonanza con le avanguardie di quell’arte occidentale così a lungo studiata. All’epoca chi si cimentava nelle tecniche di stampa faceva riferimento a due opposti paradigmi: da una parte quello propugnato dagli ‘artisti della stampa creativa’ (sosaku-hanga), cioè da coloro che realizzavano per intero la loro opera a partire dalla sua concezione sino all’edizione finale, rivendicando un’identità d’artista non frammentabile, dall’altra gli ‘artisti della stampa nuova’ (shin-hanga) che, seguendo la tradizione, affidavano i loro disegni prima ad artigiani incaricati dell’incisione e poi agli stampatori, in una sorta di armonica divisione del lavoro. Takei non si risolse per nessuno dei due schieramenti, ma coniò anche in questo caso un termine nuovo irufu (che ribaltava la parola furui, vecchio), che riferendosi a quello che stava facendo con i suoi disegni di giocattoli, voleva sottolineare un rapporto con il passato non di rottura ma di ripensamento.
I “kanpon” erano realizzati in poche centinaia di esemplari e finanziati da una società di amici e sottoscrittori, interessati a possederne copia.
I testi che accompagnano questa pirotecnia creativa sono altrettanto vari: hanno i modi del folklore (La fatina della neve, 1975) o il passo della satira (Un Eden alternativo, 1959; Adamo adopera tutte le sue ossa per creare diverse bellezze per il suo piacere), o suggeriscono l’apologo o il racconto morale di fantascienza. Dove le parole hanno brevità di sentenza c’è un ricordo della letteratura paradossale di Edward Lear o Lewis Carroll, ma non mancano esempi di poesia o prosa lirica o storie surreali, magiche ma anche sottilmente e causticamente semplici.
Come accade con i mondi possibili del romanzo europeo, con dickensiana opulenza, Takei costruisce minuziosamente in ogni “kanpon” un diverso universo in cui sprofondare dimenticando il precedente e il successivo, ma vivendo per la durata della sua lettura (visione) solo secondo le regole e la cronologia di quello in cui siamo temporaneamente trasportati.
Nei “kanpon” di Takei non è inusuale incontrare Kandinskij o Mirò, sebbene come lui stesso ha confessato nessun artista occidentale gli è stato più vicino di Paul Klee:
“Quando le mie stampe furono esposte negli Stati Uniti, alcuni critici citarono l’influenza di Mirò, ma il fatto è che io non avevo mai visto un Mirò. Ora conosco qualche sua opera, ma sento molta più affinità con Klee”.
Di Klee condivide non solo il segno elaborato e misterioso, e la capacità di sperimentare nuovi modi per dare forma alle proprie invenzioni, ma anche il senso di mistica immanenza di un mondo altro nascosto nelle pieghe di quello a noi immediatamente visibile.
Si può dire dei “kanpon” di Takei quello che lo scrittore Kawabata Yasunari, in un passo a commento del poeta Bashō Matsuo, ha detto in una conferenza di recente pubblicata in italiano (Esistenza e scoperta della bellezza, 1969): “Una volta che l’autore ha posato il suo pennello, l’opera acquisisce una vita propria con la quale cammina ed entra nel cuore di chi legge”.
Se osserviamo la superficie delle sue opere, Takei può apparire poco giapponese, e se non attraversiamo lo specchio di questa superficie la vedremo riflettere il lavoro di molti artisti della moderna storia dell’arte occidentale. Ma proprio i “kanpon” permettono di intuire come Takei colga dalla sua tradizione una verità più profonda: quella cioè che insegna a trovare la bellezza nel frammento e in ogni cosa, in un riflesso, in una stoffa, in un oggetto, in un segno, in un colore, in un’ora del giorno o nel modo in cui, solo per una volta, queste cose si combinano insieme, offrendoci una felicità mai uguale. Così i “kanpon” ci entrano nel cuore per vie eccentriche, insegnandoci come la bellezza è suscitata dal momento e dalle circostanze. È ancora Kawabata a scrivere, involontariamente illuminando Takei: “Manifestandosi in altri tempi e luoghi, non sarebbe una bellezza identica a questa. Penso, non avendola mai vista prima, di poter dire che si tratti di un caso di ichigo ichie, un incontro irripetibile”.
C’è un aforisma di Nicolás Gómez Dávila (Escolios a un testo implícito. I) che descrive, con la precisione possibile negli accostamenti del tutto casuali, il sentimento che si prova aggirandosi tra i volumetti favolosi di Takei: “La bellezza non sorprende, bensì colma”.
* La migliore scelta d’immagini tratte dai libri di Takei Takeo è reperibile qui.
* Un numero imprecisato, ma enorme, di lavori di Takei (libri da lui illustrati, volumi collettanei ecc.) sono digitalizzati sul database della National Diet Library. Di difficile consultazione per i non giapponesi.
* Un saggio sui “kanpon”, informato, analitico, davvero interessante, ma sfortunatamente non scaricabile dal web, è quello di Rachel Saunders, Gyre and Gimble. The Artist Books of Takei Takeo (1894-1983), «Print Quarterly» XXX, March 2013, p. 23-39.
* Notizie dettagliate sulle diverse tecniche di stampa sperimentate da Takei si possono leggere in, Oliver Statler, Modern Japanese Prints: an Art Reborn, Rutland/Tokio, 1959.
Molto lieta di aver avuto l’incontro con questo artista affascinante.